Quest’articolo fa parte della serie “LA VERSIONE DI Zeta“
Superata la fase acuta dell’epidemia, il Paese sta ora affrontando la crisi economica originata dal blocco di gran parte delle attività commerciali e produttive. Si stanno studiando tempistiche e modalità di ripartenza dei vari settori tali da consentire un graduale e generalizzato ritorno alla normalità nella salvaguardia della salute dei lavoratori e dei cittadini. Come già osservato in un precedente intervento, sarà compito dei vari operatori economici impiegare al meglio le risorse finanziarie ricevute in prestito, se necessario effettuando un riposizionamento strategico e rivisitando i propri modelli organizzativi e produttivi.
Tuttavia, superata la fase emergenziale, anche nel caso in cui si riuscissero a conseguire i precedenti livelli di volume d’affari, le nostre imprese si troverebbero a operare nuovamente in quel contesto ante-crisi caratterizzato da alcune criticità che da sempre penalizzano il sistema economico italiano. Burocrazia, giustizia, fisco, sono alcuni degli ambiti che necessitano di un profondo e definitivo cambio di marcia per facilitare lo sviluppo e rendere più competitive le nostre aziende. Si deve quindi procedere speditamente nel riformare questi fondamentali settori della società, nella consapevolezza che rimuovere regole, comportamenti e vizi radicati nella storia del Paese richiederà purtroppo tempi lunghi.
La rimozione degli ostacoli di sistema, pur essendo un fattore abilitante, non è però di per sé sufficiente ad assicurare un’adeguata crescita economica e ancor meno il benessere collettivo. È quindi necessario guardare al nostro modello economico in un’ottica di più ampio respiro, definendo gli obiettivi da raggiungere nel medio/lungo periodo e il conseguente e realistico programma di attività da realizzare. Un chiaro quadro di politica economica nazionale consentirebbe alle imprese di orientarsi e di indirizzare più efficacemente la propria gestione in un contesto di mercato già fortemente competitivo e mutevole, reso oggi ancora più complesso dalle conseguenze della pandemia. È il momento delle scelte importanti, in cui le decisioni non possono più essere dettate dalla contingenza o dal tatticismo, ma devono piuttosto essere il frutto di una strategia.
Il disegno e l’attuazione di un siffatto Piano strategico è un compito tanto essenziale quanto arduo. Che direzione dunque prendere per il futuro? Spetta alla politica definire i campi d’attività. Molti di essi sono stati individuati già da tempo: le infrastrutture, l’innovazione tecnologica, la cultura, il turismo ecc. Per dare però un reale contenuto a questi che altrimenti sono dei semplici titoli è necessario un filo conduttore che dia organicità alle idee e al tempo stesso renda coerente l’azione. Se individuassimo nell’uomo il nostro fil rouge, il pensiero e il lavoro da svolgere assumerebbero tutt’altro significato. Le decisioni e le soluzioni attuative apparirebbero immediatamente logiche se mettessimo al centro delle riflessioni i bisogni veri delle persone, quali la salute, la realizzazione individuale, la socialità, la sicurezza. Non si investirebbe più, ad esempio, nelle infrastrutture dei trasporti per il semplice motivo che è un settore trainante, ma piuttosto perché risponde alle esigenze delle persone che chiedono di spostarsi per lavorare, per incontrare affetti o per andare in vacanza, senza però rischiare la propria vita per il crollo di un ponte o per un incidente. Di conseguenza l’individuazione delle opere da realizzare seguirebbe una ben altra scala di priorità che non quella costruita sulla mera redditività del capitale investito. Allo stesso modo, impiegare una quota importante del nostro PIL nella sanità, nella ricerca e nell’ambiente non sarebbe considerato un costo ma un’assicurazione sulla vita. Tutelare e rendere fruibile in modo moderno il patrimonio artistico non sarebbe una spesa fine a sé stessa ma andrebbe a soddisfare il desiderio di crescita culturale e così via per qualsiasi altro indirizzo economico fissato. Un tale approccio creerebbe benessere e non sarebbe antitetico a obiettivi di crescita economica ma anzi, essendo rivolto alle necessità umane, creerebbe sviluppo sostenibile nel tempo.
Traendo poi insegnamento da quegli errori del passato che ci hanno portato all’attuale crisi sanitaria ed economica, si dovrebbero finalmente dedicare sforzi e risorse anche per disinnescare quelle minacce e quelle situazioni di rischio la cui manifestazione procurerebbe nuove e gravi emergenze per l’intera collettività. La storia ha dimostrato quanto sia errato gestire i rischi in termini di probabilità degli accadimenti e sulla base di analisi costi/benefici in un’ottica di breve periodo.
Si è visto ad esempio in questi giorni l’importanza di disporre di una rete di telecomunicazioni con connessione veloce, adeguatamente dimensionata e distribuita sul territorio. Aspetti essenziali della vita di tutti i giorni e numerosi processi produttivi saranno sempre più regolati dall’informatica e veicolati tramite queste infrastrutture. Trovarsi in futuro in una situazione di crisi del traffico dati avrebbe delle disastrose conseguenze sia sociali che economiche. È questo quindi un settore che bisogna vedere in prospettiva e che necessita di importanti interventi per rispondere alle future esigenze.
In alcuni casi, poi, i segnali di attenzione sono talmente evidenti che è ormai irresponsabile ignorarli. È ad esempio impensabile non prendere atto delle conseguenze dei cambiamenti climatici in essere. Gli abitanti del lago di Bracciano hanno potuto constatare quanto tale pericolo sia incombente, avendo assistito per anni a un’abnorme captazione delle acque per far fronte alle carenze idriche della Capitale; si è dovuto arrivare al punto di mettere a repentaglio l’intero ecosistema del lago per fermare questa pratica sconsiderata e sono occorsi tre anni per tornare a livelli d’acqua accettabili. Il problema idrico riguarda numerose zone del Paese e, se non si agirà subito, in pochi anni una delle risorse più importanti per l’uomo sarà fortemente a rischio minando le basi della convivenza civile e del sistema economico. Nella prospettiva sopra indicata, si deve quindi provvedere, finché si è in tempo, a evitare quella che sarebbe una catastrofe, un punto di non ritorno. Pertanto, come non includere gli acquedotti fra le infrastrutture primarie su cui investire immediatamente in manutenzione, eliminando perdite d’acqua che si aggirano nell’ordine del 30-40%. Come non convogliare gli interessi economici verso quelle attività agricole e industriali e, nel loro ambito, verso quelle tecnologie che hanno minore impatto idrico.
L’elenco delle situazioni di rischio a cui dedicare sforzi e risorse è purtroppo lungo. Uscire dall’emergenza è attualmente la priorità di tutti ma, come evidente, saremmo miopi se ci accontentassimo di riprendere il cammino con gli schemi e i risultati del passato senza porci invece l’obiettivo più ambizioso di essere artefici del nostro futuro, programmandolo e costruendolo intorno ai nostri bisogni. Da troppo tempo l’Economia ha rinunciato alla sua funzione principale. I parametri tecnici, come il livello di PIL e di indebitamento pubblico, individuati per misurare la salute del sistema sono diventati essi stessi il traguardo da raggiungere a ogni costo, dimenticando, come Alfred Marshall disse oltre un secolo fa, che “L’economista, come qualunque altra persona, deve preoccuparsi dei fini ultimi dell’uomo”.
Laureato in Economia e Commercio presso l’Università La Sapienza di Roma, è Dottore Commercialista e Revisore Legale.
A fine 2015 ha fondato la PMD di cui è Presidente.
Ha svolto, con responsabilità crescenti, il ruolo di CFO e altri ruoli manageriali di rilievo in alcuni importanti Gruppi del Paese: Telecom Italia, Finmeccanica, Poste Italiane, ILVA.