Quest’articolo fa parte della serie “LA VERSIONE DI Zeta“
Poche persone sanno chi fu Stanislav Petrov, eppure ognuno di noi gli deve, con molta probabilità, la propria vita. Era il 1983 quando questo ufficiale russo, non essendo convinto della veridicità dei segnali ricevuti dall’apparato antimissilistico, decise di non lanciare l’allarme per quello che, in tutta evidenza, appariva essere un attacco nucleare americano, ma che si sarebbe in seguito rivelato un errore del sistema. Numerosi sono gli spunti di riflessione che ci suggerisce questa storia, primo fra tutti l’oblio in cui è caduto un uomo che avuto un ruolo così importante per l’intera umanità.
È legittimo allora domandarsi se, passata l’emergenza, saranno dimenticati anche i tanti medici e infermieri, di cui non conosciamo neppure il nome, che negli ultimi mesi si sono adoperati con abnegazione per far fronte alla crisi sanitaria, anche a costo della propria vita. Per il rispetto e la gratitudine che gli dobbiamo, ciò non deve accadere, così come non deve più succedere che la Sanità venga considerata una spesa da contenere invece che un investimento su cui puntare per dare risposta a uno dei bisogni primari dell’uomo. Il nostro è un buon modello sanitario ma è necessario destinare alla salute e alla ricerca una quota più cospicua del PIL. Mettere a disposizione del sistema maggiori risorse non è però sufficiente se non si provvede a riesaminare alcuni aspetti. Tutti concorderanno sull’urgenza di intervenire per rivedere le logiche con cui ogni Regione determina il budget del proprio servizio sanitario, per ricalibrare la remunerazione delle prestazioni valorizzata tramite i c.d. DRG, per aumentare gli organici dei medici specializzati, per meglio coordinare l’attività libero professionale con quella ospedaliera.
Lasciando a politica e istituzioni il compito di trovare il giusto assetto, vorrei invece fare alcune considerazioni sul fronte delle aziende sanitarie, ambito di cui mi sono interessato professionalmente e con passione. Per i motivi che più avanti risulteranno chiari, non intendo trattare delle imprese private il cui obiettivo è il profitto, quanto piuttosto delle strutture pubbliche e, soprattutto, di quelle private senza fini di lucro. Sulla base della mia esperienza, ho tratto il quadro di un mondo prevalentemente chiuso dal punto di vista gestionale, poco propenso a ricevere impulsi e contributi dall’esterno. Si corre il rischio di riprodurre situazioni analoghe a quella dei monopolisti o delle realtà autoreferenziali in cui spesso si assiste a un appiattimento manageriale e professionale e a una conseguente conduzione delle attività non ottimale. Ciò non deve accadere. Se, come auspicabile, si deciderà di dotare la Sanità di una quantità più significativa di risorse, è interesse di tutta la collettività che il sistema sia nella sua complessità non solo efficace ma anche efficiente. Lo spreco di risorse preziose è un lusso che il Paese non si può permettere e l’inefficienza, originando una non equa distribuzione della ricchezza e del benessere, è inoltre causa di forti sperequazioni.
Di sicuro ci sono aziende ben gestite e sarebbe certamente sbagliato generalizzare. Al tempo stesso però, vista la posta in gioco, non si possono non rilevare le numerose situazioni caratterizzate da scarsa capacità di pianificazione e di controllo della gestione, da una governance poco fluida, da modelli organizzativi e da processi poco funzionali, da una relazione con il paziente, che non a caso è spesso asetticamente definito utente, poco attenta a quelle pur importanti necessità ancillari che ruotano intorno alla prestazione sanitaria.
Quali sono le cause che determinano queste inadeguatezze e cosa fare per superarle? Le due tipologie di aziende sanitarie, pubbliche e no profit, pur portando avanti il loro operato con differenti caratteristiche, hanno vari elementi in comune e in un quadro generale di riforma dell’intero settore, andrebbero considerate congiuntamente nell’ottica delle sinergie che possono generare per il sistema. Ciò che le rende simili e che le contraddistingue nettamente dalle imprese profit è lo scopo della missione incentrata sulla persona e sulla sua salute. Conseguentemente, queste entità sono però afflitte da alcuni equivoci di fondo, di natura in parte ideologica, che si riflettono negativamente sulla capacità di raggiungere l’obiettivo e che in alcuni casi mettono addirittura in pericolo l’esistenza stessa delle aziende. La circostanza di non dover produrre un reddito da distribuire, infatti, allenta la tensione sull’uso razionale delle risorse e spesso getta un ingiustificato sospetto su tutto ciò che è misurato con parametri economici e finanziari. Il passo è breve nell’indurre a ritenere che i bilanci di queste realtà si debbano strutturalmente chiudere in perdita.
È doveroso pertanto chiarire, semmai ce ne fosse bisogno, che le aziende sanitarie in questione devono essere gestite secondo un criterio di economicità, in base al quale il risultato da raggiungere non è il massimo profitto quanto piuttosto il mix di prestazioni, ritenuto ottimale per volumi e qualità, che si è in grado di effettuare con un certo ammontare di risorse. Sia nel caso in cui queste ultime siano assegnate e rinnovate periodicamente da un soggetto pubblico o privato, sia nel caso che esse derivino dai flussi finanziari generati dalla gestione o infine, come accade più spesso, in una situazione composita, i conti di queste strutture dovrebbero tendere all’equivalenza fra le risorse a disposizione e quelle utilizzate. Infatti, il conseguimento di un deficit, da ripianare o da assorbire con il proprio patrimonio, potrebbe essere il segnale di un’azienda condotta in modo inefficiente, che non è stata in grado di raggiungere il risultato atteso con i mezzi stabiliti. D’altro canto, la generazione di un surplus potrebbe a sua volta essere l’effetto di una gestione inefficace, in quanto incapace di esprimere tutte quelle potenzialità aziendali quali-quantitative che dovrebbero essere interamente destinate alla missione.
Per fare un deciso passo in avanti in questa direzione, è necessario pertanto sviluppare in tutte queste realtà una diffusa cultura d’azienda, cominciando dalla formazione di tutto il personale e adottando modelli organizzativi e di pianificazione e controllo che consentano di indirizzare e guidare la gestione, incanalandola in adeguati canoni di produttività e di appropriatezza della spesa per costi e investimenti. Ritengo che un tale percorso possa alimentarsi e consolidarsi grazie anche a una “contaminazione” intellettuale da realizzare con l’ingresso o la collaborazione di professionalità provenienti da altri campi d’attività. Il confronto con esperienze maturate in altri mondi produttivi amplierebbe la capacità di visione strategica e innalzerebbe il livello manageriale e professionale di queste realtà.
In aggiunta all’apporto di metodi e strumenti di lavoro gestionali, specifici contributi potrebbero inoltre venire da manager e professionisti con competenze verticali. Si pensi ad esempio all’innovazione che sarebbe possibile sviluppare grazie all’esperienza e alla mentalità di persone provenienti da settori tecnologici avanzati. Figure manageriali e professionali formatesi nelle imprese di servizi farebbero poi evolvere il diffuso e superato modello di relazione con l’utente in una ben diversa logica di orientamento al cliente, offrendo servizi innovativi accessori alla prestazione sanitaria, disegnati in base ai bisogni pratici del paziente e fruibili in multicanalità.
La crisi economica ha colpito duramente la Sanità e molte strutture no profit che già si trovavano in difficoltà rischiano di scomparire. Se il Paese ha finalmente compreso l’essenzialità di questo settore, è necessario che fornisca un sostegno economico e finanziario a queste aziende, prescindendo dal fatto che i loro problemi siano conseguenza del fenomeno Covid-19 o siano preesistenti ad esso. Per beneficiare di interventi di questa natura, i soggetti beneficiari dovrebbero però dare prova di una raggiunta maturità, presentando seri e realistici piani strategici e di lavoro finalizzati a conseguire una convinta e reale evoluzione nell’amministrazione aziendale. Sono convinto che grazie a un’ordinata gestione, queste realtà possano realizzare significativi margini di miglioramento in tempi rapidi. Pur nella complessità della materia, la cura esiste. Bisogna però agire presto per correggere e rafforzare il nostro sistema di difesa, perché in caso di attacco non potrà essere un Petrov a salvarci.
Laureato in Economia e Commercio presso l’Università La Sapienza di Roma, è Dottore Commercialista e Revisore Legale.
A fine 2015 ha fondato la PMD di cui è Presidente.
Ha svolto, con responsabilità crescenti, il ruolo di CFO e altri ruoli manageriali di rilievo in alcuni importanti Gruppi del Paese: Telecom Italia, Finmeccanica, Poste Italiane, ILVA.