Quest’articolo è stato pubblicato su ANDAF MAGAZINE di Luglio 2020
COSA LASCIA IN EREDITÀ L’EPIDEMIA COVID-19 AL MONDO DELLE IMPRESE? IL VERTICE ANDAF HA DI RECENTE EMESSO IL DISCUSSION PAPER “RUOLO E RESPONSABILITÀ DEL CFO NELLA FASE POST NUOVO CORONAVIRUS” CHE TRATTEGGIA IL QUADRO COMPLESSO E INCERTO IN CUI LE AZIENDE SI TROVERANNO AD OPERARE, ESAMINANDO EFFICACEMENTE I POSSIBILI IMPATTI SULL’OPERATIVITÀ DEI CFO. NON VI È DUBBIO CHE QUESTA STRAORDINARIA EMERGENZA ABBIA OFFERTO A TUTTI NOI LA POSSIBILITÀ DI RIFLETTERE SUI NOSTRI MODELLI AZIENDALI E SOCIALI, FACENDOCI SCOPRIRE PIÙ UNITI DI QUANTO FOSSIMO ABITUATI A PENSARCI E INDICANDOCI, PROPRIO NELL’UNIONE, LA CHIAVE DI VOLTA PER LA RIPARTENZA.






La situazione che stiamo vivendo non trova paragoni con il passato. Ci muoviamo su un terreno sconosciuto per cui è estremamente arduo fare previsioni attendibili e dare indicazioni valide in assoluto. Il focus può cambiare in base al settore d’attività in cui la singola impresa opera, al suo stato di salute, alle sue caratteristiche organizzative e così via. Conseguentemente il CFO dovrà fronteggiare i vari scenari che di volta in volta si presenteranno. A mio avviso, però, al di là delle specificità del contesto, nulla cambia nei fatti per la figura del CFO, da tempo abituata ad affrontare le novità e gli imprevisti con una visione globale dei fenomeni aziendali, con spirito innovativo e con metodo, con capacità di analisi e progettuale, attingendo dal proprio vasto bagaglio professionale le competenze più appropriate. La rilevanza che questa figura ha assunto oramai nelle organizzazioni aziendali è semmai destinata a consolidarsi ulteriormente.
Rimandando pertanto alla menzionata disamina di ANDAF per un approfondimento sulle principali criticità che i CFO dovranno gestire, voglio fare alcune riflessioni su aspetti che esulano dall’ambito tecnico e che attengono invece ai profili comportamentali e relazionali del ruolo.
Nell’ultimo capitolo del documento ANDAF si afferma che è necessario recuperare la centralità dell’uomo. Condivido pienamente questo principio su cui ho avuto già modo di esprimere il mio pensiero in passato. Nell’odierno mondo globalizzato non può esserci un sistema a lungo sostenibile se l’essere umano e i suoi bisogni primari non sono messi al centro della politica economica e, conseguentemente, della strategia delle imprese. Le aziende che pur ricercando un giusto profitto affermano di avere a cuore i clienti, la collettività e i lavoratori si assumono un impegno che può essere mantenuto solo se frutto di un sincero e profondo convincimento.
In questo quadro il manager dovrebbe sentire la responsabilità di raggiungere gli obiettivi economici stabiliti senza subordinare l’uomo alla logica del profitto. Non a caso il fattore umano è stato il fil rouge che ha attraversato e condotto i pensieri di tutti in questi ultimi mesi in cui sono state rimesse in discussione le nostre convinzioni, il nostro modo di vivere e di lavorare, le nostre priorità. L’uomo, almeno nei dibattiti, sembra finalmente essere il protagonista. Poniamo allora al centro del progetto aziendale l’essere umano come misura di ogni cosa, così come nel disegno dell’ Uomo Vitruviano.
L’emergenza sanitaria e gli avvenimenti legati ad essa hanno sollecitato in tutti noi numerosi spunti di riflessione sull’importanza che rivestono alcuni valori e comportamenti umani, quei c.d. soft skill riportati peraltro in tutti i manuali di management e tanto predicati nelle aziende ma nella realtà spesso dimenticati.
La pandemia ci ha mostrato, ad esempio, come le sfide si vincano lavorando insieme in modo organizzato e coordinato e mettendo a fattor comune professionalità differenti in modo complementare e sinergico. Rivedendo il nostro modo di lavorare, siamo veramente sicuri che il lavorare in team non sia diventato per noi e per le nostre aziende un mero slogan? Il nostro agire è coerente con questo principio oppure lo disattendiamo, forse in modo inconsapevole? Quanto siamo distratti da un’operatività quotidiana che nella sua frenesia non ci lascia il tempo per ragionare e per prestare attenzione a chi ci è vicino in un’avventura comune?
Durante l’ emergenza c’ è chi ha dato il proprio contributo in prima linea, come i medici e gli infermieri, ma c’è anche chi nelle retrovie ha dato il proprio fondamentale apporto, come ad esempio i trasportatori e i lavoratori dei supermercati. Singolare la circostanza per cui molte di queste categorie, che oggi hanno il rispetto di tutti, fino a pochi mesi fa erano spesso oggetto di critiche o di scarsa considerazione. E allora dobbiamo interrogarci se siamo soliti riconoscere veramente l’impegno di tutti coloro che partecipano alle attività di cui abbiamo la responsabilità, ricomprendendo fra essi anche chi non è illuminato dalla luce dei riflettori. Come non osservare, poi, che le tante persone che si sono adoperate con sacrificio – anche a costo della propria vita – per sconfiggere il virus sono state mosse da motivazioni personali non economiche quali il senso di responsabilità, l’orgoglio professionale, la solidarietà. Sinceriamoci allora che tutte le persone con cui lavoriamo siano concretamente parte di un progetto comune e si sentano realizzate. Creiamo le condizioni affinché possano mettere al servizio generale la propria dote di esperienze, competenze e creatività. Riconsideriamo anche la validità dei sistemi di incentivazione economica diffusi nelle nostre aziende, che si basano sostanzialmente su un concetto di sfiducia del tipo “ti pago di più se raggiungi un obiettivo”, non ritenendo che sia possibile ottenere altrimenti l’impegno dei collaboratori. Attiviamoci, per quanto di nostra competenza, a cambiare questo paradigma. Lavorare realmente in squadra e dare ai lavoratori la possibilità di esprimersi e di realizzarsi assicurerà uno sviluppo sostenibile nel tempo e ricadute economiche per chi avrà contribuito ad esso.
Un altro aspetto interessante che è emerso in questi mesi è stato il bisogno avvertito dalle persone di avere dei riferimenti e di affidarsi a qualcuno deputato a prendere decisioni nell’interesse di tutti. Al tempo stesso va evidenziata la maturità mostrata dalla maggior parte dei cittadini, soprattutto quando hanno ricevuto spiegazioni trasparenti e puntuali. Sicuramente c’è stato chi non ha rispettato le regole ma, pur facendo più notizia degli altri, si è trattato di un numero comunque modesto di individui, che si è andato peraltro ad assottigliare a seguito dell’applicazione sistematica delle sanzioni previste. Tornando pertanto al nostro ruolo, è forse opportuno fare un’analisi onesta sul nostro stile manageriale e valutare l’efficacia del tipo di leadership con cui ci proponiamo al nostro team di lavoro. Dobbiamo chiederci criticamente se rappresentiamo per gli altri un punto di riferimento in azienda. Riteniamo che le persone stiano lavorando per noi oppure siamo a servizio del team affinché tutti siano messi nelle migliori condizioni per lavorare? Scarichiamo su altri il peso delle decisioni impopolari e difficili o ci assumiamo sempre le nostre responsabilità, consapevoli che ogni decisione incide sulla vita altrui? Addebitiamo ad altri i nostri errori o siamo pronti a riconoscerli? Riteniamo, quindi, che l’errore rappresenti un fallimento della persona o crediamo in una cultura dell’errore in cui quest’ultimo rappresenta un momento di apprendimento e di crescita? Tendiamo ad affermarci con l’autorità del grado oppure comunichiamo con l’autorevolezza data dalla validità del nostro pensiero e delle nostre idee? Impartiamo ordini perentori e immotivati o diamo istruzioni chiare nell’ambito di una strategia adeguatamente illustrata e condivisa? Adottiamo una costante pressione sui collaboratori o siamo aperti nel concedere loro fiducia, pronti però a correggere in modo fermo i comportamenti inappropriati? Questi ultimi aspetti dell’approccio manageriale acquistano una particolare rilevanza in un momento come questo, in cui la relazione di lavoro ha perso la sua dimensione fisica a favore di una modalità di lavoro decentrata. Fra i termini più utilizzati negli ultimi mesi, infatti, troviamo la locuzione smart working. In pochi giorni, nel campo lavorativo come in quello affettivo, si è affermata una forma di socialità a distanza grazie a un uso diffuso della tecnologia. I mezzi di comunicazione ci hanno fatto entrare nelle case altrui. Personaggi noti, che siamo abituati a vedere in abiti e situazioni formali, si sono mostrati in modo semplice comunicandoci empatia e noi li abbiamo sentiti emotivamente più vicini. L’immedesimarsi negli altri aiuta a instaurare una salda relazione interpersonale; quando però attraverso la tecnologia si entra nello spazio privato delle persone, nella loro intimità, è necessario avere maggiore tatto nel rapportarsi ad esse. Per poter interagire efficacemente a distanza, soprattutto nei casi di collegamenti multipli, sono stati adottati protocolli di comunicazione che richiedono un’ accurata organizzazione delle riunioni, la preparazione dei partecipanti sui temi da discutere e una sapiente attività di conduzione e moderazione del dibattito. A ben vedere, la situazione contingente non ha fatto altro che stressare alcune regole basilari che dovrebbero essere già acquisite nel nostro tradizionale modo di lavorare ma che troppo spesso non riusciamo a seguire sopraffatti da un’operatività convulsa. Nel ritornare alla normalità, ripensiamo allora al modo con cui ci rapportiamo agli altri e in cui organizziamo il lavoro nelle nostre aziende. Ricordiamoci che dietro ogni collega c’è una vita privata che reclama i suoi giusti spazi. Impariamo a rispettare questo ambito con un agire lineare ed efficiente, dove sia ben identificato cosa è importante e cosa è urgente. Diamo un ordine di priorità alle cose e impostiamo la gestione in modo ordinato, evitando quelle attività e scadenze inutili, spesso originate solo dalla necessità di tranquillizzare lo stato d’ansia provocato dalla scaletta dei tempi e dai risultati da rispettare.
È servito un evento imprevisto e straordinario per farci fermare e darci l’opportunità di riflettere. Gli spunti che possiamo ricavare da questa crisi saranno metabolizzati da ciascuno in base alla propria sensibilità e attitudine, entrando a far parte della cifra manageriale personale di ognuno di noi. Se tutto dovesse ritornare come prima, avremmo però perso un’ occasione importante per mettere veramente l’ uomo al centro del nostro agire in azienda.
La pandemia ci costringerà per un po’ a usare le mascherine rendendo più difficile la comunicazione fra gli individui. Chissà, però, che questa non sia proprio l’occasione che ci obbligherà ad ascoltare con più attenzione le parole affievolite delle persone con cui lavoriamo e a recuperare emozioni dai loro sguardi.
Laureato in Economia e Commercio presso l’Università La Sapienza di Roma, è Dottore Commercialista e Revisore Legale.
A fine 2015 ha fondato la PMD di cui è Presidente.
Ha svolto, con responsabilità crescenti, il ruolo di CFO e altri ruoli manageriali di rilievo in alcuni importanti Gruppi del Paese: Telecom Italia, Finmeccanica, Poste Italiane, ILVA.